Scuola Italiana Sommelier
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METTERSI SEMPRE IL NASO: quattro chiacchiere con Anna D'Errico, scienziata dell'olfatto
di Alessandra Biondi Bartolini - Blogger
16/12/2019
Fotografia Si possono combinare la passione per i profumi, la chimica e la danza?
Ho posto questa domanda a Anna D’Errico e la risposta è stata che sì con la divulgazione scientifica si può fare. Bergamasca, biologa con dottorato in neuroscienze all’Università di Pavia seguito dalle esperienze nello studio dell’olfatto alla SISSA di Trieste, al Max Plank Institute e oggi all’Università di Francoforte, Anna è una scienziata dell’olfatto e fa ricerca di base: “studio il “come funziona”, cioè come la rete di neuroni nel cervello elabori le informazioni sensoriali e come i neuroni si “passino” queste informazioni” ci spiega. Una che, appassionata di profumi, fin da piccola mette il naso dappertutto e ama sperimentare.

Così nel tempo libero dal laboratorio Anna coltiva la divulgazione, scrivendo per alcune riviste online e aprendo il suo blog sull’olfatto, Il senso perfetto, di odori improbabili e puzze (im)possibili, “uno spazio” ci racconta “in cui raccogliere appunti e pensieri, ma soprattutto condividere e raccontare agli altri gli aspetti poco noti e sorprendenti di questo senso.”

Poi nel tempo libero dal laboratorio e dalla divulgazione Anna coltiva anche un background in teatrodanza e teatro fisico che l’hanno portata a sviluppare un suo metodo che comprende anche le esperienze olfattive.

“Il fatto è che non riesco a tenere le cose separate a un certo punto tutte queste attività hanno colliso: ho iniziato ad approfondire alcuni studi di arte e neuroscienze e mi sono concentrata soprattutto sull’olfatto e sull’uso degli odori in ambito scenico e performativo. Sono entrata in contatto con una cerchia di artisti olfattivi iniziando intanto a sperimentare e sviluppare dei miei studi-performance di teatrodanza usando anche gli odori. L’olfatto è un senso intimo a cui si ancorano rezioni istintive, emozioni e ricordi, perciò gli stimoli odorosi possono trasformarsi in potenti elementi di ispirazione e suggestione. Mi muovo quindi cercando di far tesoro della scienza dell’olfatto per usare questo senso in modo più consapevole e poter poi atterrare su lidi astratti e fin surreali come si può fare solo con l’arte. Questo è il desiderio insomma.”

E lo so, è venuta anche a me la voglia di partecipare a uno spettacolo olfattivo.
Poi un giorno gli editor di Codice le scrivono e il blog diventa un libro “Il senso perfetto” uscito il 18 ottobre scorso, nel quale Anna racconta i segreti e le curiosità di questo senso tanto dimenticato e bistrattato quanto intimo e intrigante (pensate al peso sociale che si dà all’udito e alla vista e alle loro malattie e capite che anche tra i cinque sensi ci sono i vip e gli invisibili, i privilegiati e i ribelli). Un libro che vale la pena di leggere soprattutto da parte di chi il naso lo usa tutti i giorni per piacere o per lavoro, sopra un calice da degustazione. Perché, come afferma il payoff del titolo di copertina, non bisogna mai sottovalutare il naso.

Cinque domande a Anna D’Errico per saperne di più sul naso e su come farne un buon uso

Si dice che il naso dell’uomo sia molto meno sensibile e performante di quello degli altri animali (il cane è quello che viene sempre preso ad esempio), siamo davvero dei cattivi annusatori o semplicemente siamo fuori esercizio?

Le ricerche scientifiche più recenti hanno ormai mostrato che l’olfatto umano è piuttosto sviluppato e, in molti contesti, non ha nulla da invidiare a quello di altri animali. Le aree cerebrali dedicate all’olfatto sono numerose e, nell’essere umano, comprendono anche aree come la corteccia orbitofrontale, fondamentali per le attività cognitive superiori. Gli scienziati pensano infatti che, seppure la soglia di detezione di alcuni odori nell’uomo sia inferiore a quella di altri animali, come il cane, nel corso dell’evoluzione ci sia stata comunque una compensazione con altre aree cerebrali, per cui gli umani sono molto bravi a memorizzare e discriminare gli odori, bastano attenzione ed esercizio, come ben sanno gli esperti profumieri, i sommelier e i degustatori.

Quando è che abbiamo smesso di osservare il mondo con il naso?

C’è da dire che, soprattutto nella cultura occidentale, questo talento nel tempo si è un po’ perso anche per ragioni storico-culturali. La filosofia classica ha spesso attribuito al senso dell’olfatto poco valore intellettuale considerandolo invece un senso “animale”, poi in epoche più recenti si è creata un’interessante ambivalenza (in parte già presente): le grandi città europee del Diciasettesimo e Diciottesimo secolo erano sporche, piene di miasmi e molte malattie erano attribuite direttamente al cattivo odore. Con il successivo processo di igienizzazione e l’avvento della scienza moderna ci si è “ripuliti”, ma si è diventati gradualmente più sensibili al “cattivo odore”. Dall’altro lato però, nel frattempo, è nata la profumeria moderna e ci si è iniziati a profumare sempre di più. E se pensiamo ai giorni nostri, in realtà il naso è molto stimolato, non solo sul versante della profumeria, ma anche su quello, per esempio, di vini e degustazione. Questi ambiti oltre essere diventati molto popolari rappresentano anche importanti fette di mercato. Ciò che forse manca è soprattutto una nuova consapevolezza olfattiva.

Un buon “naso” o un bravo degustatore deve saper percepire, riconoscere e verbalizzare gli odori che sente, ovvero assegnare loro un’etichetta semantica, ci descrivi il percorso che fa una molecola aromatica dal naso al cervello?

Diversamente dagli altri sensi le informazioni odorose arrivano in modo diretto ai cenrtri più antichi del cervello, in particolare le aree limbiche come amigdala (importante per le emozioni) e ippocampo (importante per la memoria). Questo è uno dei motivi per cui le reazioni agli odori riescono a essere così viscerali e a innescare reazioni emotive intense prima ancora di essere verbalizzate. Dai recttori olfattivi nel naso l’informazione arriva direttamente al cervello, prima ai bulbi olfattivi e da lì a numerosi distretti: amigdala e ippocampo, come dicevamo, e poi corteccia entorinale e corteccia orbitofrontale che è, come accennavo, una delle aree cerebrali invece più “sofisticate” e importanti per il pensiero superiore. Questa doppia marcia dell’olfatto rende conto, da un lato, di quanto sia complesso, e dall’altra di quanto importanti in realtà continuino a essere anche per noi animali umani le informazioni olfattive.

E di tutto questo quanto è innato e quanto si può imparare?

Riguardo alle abilità olfattive vi è un buon misto di innato e appreso. A riguardo è importante sottolineare, anche alla luce delle ultime scoperte scientifiche, che ognuno ha un “proprio naso” e che già alla nascita ci sono alcune differenze individuali. L’insieme di geni per l’olfatto è molto grande e il risultato è che gli esseri umani hanno circa 400 tipi di recettori olfattivi (per la vista, per esempio sono tre), ed essi possono a loro volta presentarsi in alcune varianti. Non tutti possediamo esattamente gli stessi, si chiama polimorfismo genetico, e di conseguenza alcune sensibilità olfattive possono leggermente cambiare da individuo a individuo. Il resto però è soprattutto frutto di apprendimento, allenamento e attenzione.

Sappiamo che la fantasia ad assegnare le etichette semantiche ai degustatori professionisti non manca ma secondo te (e secondo gli studi) il lessico che descrive gli odori per essere condiviso deve essere ricco e fantasioso o è meglio che sia almeno un po’ codificato (penso alla ruota di Anne Noble)?

Linguaggio, lessico ed etichette o, se vogliamo, nomenclatura, nel caso degli odori rappresenta una questione critica e molto dibattutta in ambito scientifico, ma anche in diversi campi in cui col naso ci si lavora, come appunto il mondo dei profumi e quello dei vini. Da un lato ci scontriamo con un problema di tipo sistematico poiché classificare gli odori in base a criteri fisici, di struttura chimica, o simili è fallito miseramente numerose volte e gli scienziati non sono ancora riusciti a trovare un modo affidabile per classificare le molecole odorose. Certamente ci sono delle macroclassificazioni, ma dal momento in cui prevedere in modo rigoroso e consistente che odore avrà una molecola a partire solo dalla sua struttura chimica non è un metodo affidabile, ci sono degli evidenti problemi di sistematizzazione.

Dall’altro lato abbiamo l’esigenza, come essere umani che parlano, comunicano e si scambiano informazioni, di dare un nome a ciò che annusiamo e la faccenda viene complicata dal fatto che il nostro cervello è facilmente suggestionabile, ha bisogno di definire un contesto chiaro per interpretare le informazioni che riceve, e ciò lo rende molto suscettibile a bias percettivi e, in parole povere, a qualche cantonata. Anche per questo penso che in certi ambiti, come appunto quello dell’enologia, un linguaggio condiviso minimo possa essere utile, come del resto in qualunque altro contesto: ci si capisce meglio quando si parla una lingua o un linguaggio comune. Su quale debba essere tale linguaggio direi che vi è ancora molto dibattito. L’ideale sarebbe combinare i due processi, usare cioè un minimo di lessico codificato, ma poi a livello individuale sforzarsi anche di elaborare una propria sensorialità, esercitarsi a descrivere le proprie percezioni in molti modi, usando o prendendo in prestito parole e immagini anche dagli altri sensi e allenarsi a porre attenzione alle sensazioni."

Rullo di tamburi, la domanda delle domande: le puzze e i difetti

C'è un capitolo nel libro di Anna che si intitola "Puzza o profumo" e subito mi tornano alla mente  le interminabili diatribe del vino pratico, scritto e parlato relative a che cosa debba essere o meno considerato un difetto. C'è il punto di vista dei tecnici che come Claudia Donegaglia spiegano la ricerca del difetto come controllo di processo, e ci sono i relativisti che vedono quasi tutto come una questione di stile. Però sono sempre più convinta che quando si alzano i toni sulla qualità percepita, la difficoltà nel trovare un accordo non sia tanto nel prodotto o nel processo quanto piuttosto nei nostri nasi e nei nostri cervelli. E allora, visto che ho la fortuna di avere di fronte una neurobiologa chiedo a lei.

La domanda: Nel capitolo "Puzza o profumo" spieghi che gli aromi sono puzze o profumi, gradevoli o sgradevoli, a seconda dell’esperienza alla quale li leghiamo. Alcune caratteristiche di un prodotto alimentare però creano repulsione per difenderci da un’intossicazione anche se la maggior parte di noi non ha per fortuna mai fatto questa esperienza. È possibile che cambiando i valori che sono attribuiti a quello che consideriamo un difetto possa cambiare davvero la percezione che qualcuno ha di essi e li percepisca come profumi?
Il dibattito su alcune caratteristiche che la tecnica enologica classifica come difetti cioè, quali gli odori dati dall’acido acetico, l’acetato di etile o l’acetaldeide che non sono percepiti come “peccati” altrettanto gravi dai sostenitori dei vini naturali, potrebbe essere legato a una reale diversa percezione di una stessa caratteristica o si tratta di un atteggiamento influenzato dai valori che si danno alle pratiche che portano talvolta, ma naturalmente non sempre, a svilupparli?

È una domanda molto interessante a cui è difficile rispondere in modo categorico. In linea teorica ciò che mi sento di poter affermare è che, in generale, la percezione – soprattutto olfattiva - può essere fortemente influenzata da quello che in psicologia viene definito “frame”, ovvero la cornice o contesto (e anche l’etichetta associata a un odore). È un fatto descritto anche in numerosi studi scientifici: il legame emozionale e la familiarità a un odore, lo rende non solo più sopportabile, ma anche più apprezzabile.

La repulsione istintiva verso certi aromi, avviene soprattutto a livello del senso del gusto, come l’amaro, spesso associato a sostanze tossiche. Tuttavia, crescendo impariamo a distinguere ciò che possiamo o non possiamo ingerire, e quindi, di nuovo, la componente culturale di abitudine sensoriale a certi aromi e sapori è fortemente influenzata da contesto e apprendimento. In più, a livello più psicologico, se si è profondamente convinti (e qui parliamo comunque solo di chi è in buona fede naturalmente) della qualità del proprio lavoro e della propria produzione, sicuramente le proprie percezioni sensoriali potranno esserne influenzate.

È un discorso molto complesso perché, come nel caso appunto dei vini naturali, non si tratta solo di un processo produttivo diverso, ma spesso anche di un approccio e di una filosofia che mettono spesso in campo anche un sistema “valoriale”, passatemi il termine, specifico e un senso di appartentenenza molto forti. Ciò di per sé costituisce già un primo frame nel quale va a incorniciarsi tutto il resto, e la valutazione sensoriale del vino alla fine ne rappresenta solo una piccola parte. Quindi, almeno a livello individuale, trovo assolutamente plausibile che qualcuno, per quelle menzionate e altre ragioni, possa apprezzare vini definiti tradizionalmente con difetto olfattivo. D’altra parte ciò richiama nuovamente la questione della nomenclatura ed etichettatura più o meno formalizzata e del tipo di descrittori e linguaggio da utilizzare, e su questo la questione credo sia ancora un po’ aperta.

Da neuroscienziata l’osservazione che mi viene da fare è che se da un lato sicuramente ci sono degli standard qualitativi e di produzione, è anche vero che d’altra parte il cervello non sempre considera “bello” o “piacevole” ciò che è stilisticamente o secondo alcuni canoni “perfetto”, anzi. In questo senso uno degli esempi più lampanti, volendo usare un altro campo, lo troviamo proprio nell’arte e nel gusto per certe cose attraverso il tempo e le società. Mi spiego meglio: un conto è la qualità tecnica e/o stilistica di un prodotto o di un manufatto in base a determinati canoni, tutt’altra faccenda è cosa poi noi apprezziamo, amiamo e compriamo. Diventa quindi ancora più interessante riflettere e interrogarsi sul se e come cambierà il nostro gusto verso ciò che beviamo. Sul come e perché il nostro cervello apprezzi certe cose più di altre, sul perché consideri certe cose “belle” o “brutte”, gli scienziati ci stanno ancora lavorando e si interrogano, talvolta anche davanti a un bicchiere di vino.”

Continueremo a discuterne ma almeno sappiamo che per le neuroscienze come diceva Nino Frassica non è bello ciò che è bello, ma che bello, che bello, che bello.